Il “mai” è un avverbio, dal dizionario spiegato come “In nessun momento, in nessun caso, per lo più in frasi negative” o anche “in espressioni che escludono qualsiasi possibilità o eventualità”. Soffermiamoci su questa ultima definizione: il mai esclude ogni possibilità. La esclude nel momento in cui lo diciamo e a furia di ripeterlo la mente e il corpo se ne convincono talmente profondamente da rendere l’eventualità impossibile. Mai equivale a impossibile.
La mente che non riesce a immaginare l’impossibile, non lo realizza. Eppure si può realizzare anche l’impossibile. Pensate alla serie tv degli anni ’60-’70 “Missione Impossibile”, diventata poi una saga cinematografica con Tom Cruise “Mission Impossible”. Perché ha avuto un tale successo in passato e tuttora nel presente? Missioni impossibili da completare, per l’appunto. Una squadra che riesce dove gli altri falliscono, imprese ritenute irrealizzabili. In entrambe le serie televisiva e cinematografica, però, sebbene il titolo faccia pensare a “non potrà mai accadere”, nella sceneggiatura alla fine c’è sempre una “mission accomplished”, “missione compiuta”.
Ecco perché il suo successo presso il pubblico. A parte il genere ad alta adrenalina che tiene lo spettatore incollato alla poltrona con il fiato sospeso, il concetto è che si sa già che i buoni completeranno la missione, nonostante il titolo che porta a pensare il contrario e fino all’ultimo minuto il pensiero è “non ce la faranno mai”. Questo “mai”, nella vita reale è un portone blindato chiuso che preclude qualunque strada perché la vita non è un film a lieto fine nonostante il titolo. Se nella vita reale mettiamo come titolo o appellativo “impossibile”, attaccando l’etichetta del “mai” a qualche progetto o pensiero, ecco che il finale non lieto decidiamo di scriverlo noi.
E se per caso volessimo dire “mai più” a qualcosa di negativo? Che sia realizzabile? Come presa di posizione avrei da ridire sull’efficacia o utilità di una simile affermazione, preferendo invece un’affermazione propositiva spostando il focus su qualcosa che voglio accada, piuttosto che su qualcosa che voglio che non accada più. Non voglio restare “mai più sola” potrebbe diventare “voglio stare più spesso in compagnia” per esempio. Anche perché se ci pensiamo bene, essendo il “mai” un avverbio che racchiude l’idea di un tempo infinito è già di per sé poco realistico e tutto ciò di cui posso essere sicuro a proposito del futuro, alla fine si tratta solo di congetture in quanto non è prevedibile al 100%. Il “mai” che riguarda strettamente la mia persona termina alla fine della mia vita terrena. Oppure no. Chi può dirlo?
Dipende sempre da quello che si pensa di sapere del futuro dopo la morte. Di quello che si PENSA di sapere, per l’appunto, Dipende dalle convinzioni e dalle credenze di ognuno di noi. L’effimera certezza di sapere che sarà un “mai” è essa stessa un costrutto della nostra mente in base al nostro bagaglio di idee, esperienze, congetture, verità personali derivanti da percezioni, elaborazioni, interpretazioni di emozioni, tradizioni, religioni, etichette, imposizioni ecc. Troppe variabili davvero, quando tiriamo in ballo frasi del tipo “non ce la farò mai”. Una simile affermazione ha lo scopo di portare a rinunciare a priori ad un obiettivo per chissà quanti motivi apparentemente validi.
Facile e comprensibile per ognuno di noi nascondersi dietro a lunghi elenchi di motivazioni per tirare i remi in barca. E atleti che si sono ritrovati senza arti per malattia o incidente e che poi sono andati alle Olimpiadi paraolimpiche come li chiamereste? Supereroi? Alieni? Pensate ad un Alex Zanardi o a Bebe Vio, giusto per citarne due. Eppure sono persone che non si sono riempite la bocca di “mai” ed hanno pensato invece di continuare ad allenarsi. Altrimenti si può anche allargare i propri orizzonti e cambiare scopo nella vita, senza ostinarsi a voler continuare a fare quello che si faceva prima di subire un grande cambiamento o impedimento a livello fisico.
La flessibilità mentale aiuta a reinventarsi in molti modi. Uno Stephen Hawking sarebbe rimasto nella memoria di tutti come cosmologo, fisico, matematico, astrofisico e accademico così autorevole se avesse pensato di prendere la sua malattia come un impedimento, un “mai” che chiude la porta in faccia? Una SLA che nel 1963 avrebbe dovuto lasciargli 2 anni di vita, mentre ci vollero poi più di 20 anni perché perdesse movimenti e parola e comunque visse fino a 76 anni continuando a lavorare e dedicare il resto della sua vita alla scienza. Come lui, molti altri si trovano a dover affrontare malattie o situazioni estreme che sarebbero terreno fertile per tanti piccoli semi di “mai”.
Se non vogliamo trovarci davanti una fitta selva inaffrontabile, una coltivazione di “mai”, faremmo bene a rimuovere questo assoluto dal nostro vocabolario. Meglio prima che… mai.
Barbara Bisello